Il riuso sociale dei beni “comuni” confiscati alle mafie.
L’idea di una cittadinanza attiva per sconfiggere le mafie: dalle esperienze concrete alle criticità del nuovo Codice Antimafia a dieci anni dalla emanazione.
Il Codice Antimafia, adottato con decreto legislativo 159/2011, ha introdotto delle rivoluzionarie nozioni giuridiche, così tanto innovative che l’apparato amministrativo – ancora oggi – sembra non sia riuscito compiutamente a concretizzarle.
Tali nozioni sono quelle di “bene comune” e di “riuso sociale” dei beni sottratti alla criminalità.
Per “bene comune”, si intende quel bene che passa dalle mani della criminalità organizzata alla collettività per il tramite degli istituti del sequestro o della confisca, adottati dall’Autorità giudiziaria, al fine di consentirne un riuso sociale del bene e, conseguentemente, un vero e proprio ritorno del bene nelle mani della comunità.
Pare opportuno ricordare che mentre con il sequestro si realizza un temporaneo spossessamento del bene, solamente con la confisca definitiva il bene diviene effettivamente di proprietà dello Stato.
Per “riuso sociale” dei beni confiscati alle mafie, invece, si intende evidenziare in particolar modo non tanto il passaggio dei beni privati sotto il gioco del potere pubblico, quanto la capacità della comunità dei cittadini di “reagire” e di “ribellarsi” ai soprusi della criminalità, ridando ai beni sottratti alla illegalità, una nuova linfa di legalità grazie al riutilizzo sociale degli stessi.
Il messaggio simbolico sotteso alle nuove nozioni contenute nel Codice Antimafia è di straordinaria importanza, in quanto intende indebolire le organizzazioni criminali proprio laddove sono più forti: nel potere economico e nel dominio sui territori.
L’obiettivo a cui aspira il Legislatore è quello di creare una nuova forma di “cittadinanza attiva”, che si presti alla cura e alla gestione dei beni precedentemente posseduti dalle mafie, in un’ottica di “amministrazione condivisa” tra cittadini ed ente territoriale; da qui l’importanza fondamentale del ruolo politico di ogni singolo Comune, individuato quale fautore e indispensabile protagonista della lotta alla illegalità.
La straordinaria finalità del nuovo Codice Antimafia, in definitiva, non è solamente quella di ripristinare la legalità perduta mediante la riaffermazione dello Stato di diritto proprio in quei territori in cui la mafia ha imposto il proprio dominio, ma quella di restituire alla cittadinanza una nuova opportunità di sviluppo economico e sociale, con l’ulteriore obiettivo di diffondere una cultura alla legalità ritenuta il vero “antidoto” per la lotta alla criminalità.
Ne consegue l’estrema importanza della nozione di “riuso sociale” del bene confiscato. Lo Stato, infatti, una volta confiscato il bene deve decidere se tenere il “bene comune” oppure destinarlo all’ente territoriale in cui esso è situato di guisa che – quest’ultimo – potrà decidere a sua volta se gestirlo, oppure, in ossequio all’ideale di cittadinanza attiva, assegnarlo in concessione a titolo gratuito direttamente alla comunità civile, previa stipula di una apposita convenzione.
Il nuovo archetipo di amministrazione condivisa trae origine dalla nozione costituzionale di “Stato comunità”, laddove, in particolare, sono descritti nel Titolo V i rapporti tra tutti i vari soggetti componenti la collettività, centrali e periferici, pubblici e privati, i quali sono caratterizzati non più per il connotato di supremazia, ma per la riconosciuta piena parità e dignità.
Di conseguenza, in piena attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale (ex art. 118, co. 4, Cost.) è consentita la possibilità di assegnare i cespiti sottratti alle mafie in favore di comunità anche giovanili, ad enti, ad associazioni maggiormente rappresentative degli enti locali, ad organizzazioni di volontariato, a cooperative sociali, a comunità terapeutiche, alle associazioni di protezione ambientale; insomma a tutte quelle forme di associazionismo e cooperativismo dalla mutualità prevalente, caratterizzate dal requisito della mancanza dello scopo di lucro. Solo in via subordinata, qualora l’assegnazione del bene non vada a buon fine, l’ente locale può procedere alla c.d. “messa a reddito” dell’immobile, ossia utilizzarlo per scopi di lucro, tuttavia, sempre con il vincolo di reinvestire i proventi per finalità sociali (art. 48, Codice Antimafia).
La gestione e la destinazione dei beni diventano, pertanto, il vero "strumento" di contrasto alla criminalità nonché il connaturale proseguo delle migliori finalità di prevenzione. Difatti, alla società civile, per il tramite dell’indispensabile ausilio delle istituzioni pubbliche, è affidato il compito proattivo di riaffermare la legalità perduta, non tanto in senso formale, quanto in senso sostanziale con la creazione di vere e proprie iniziative economiche volte alla partecipazione della collettività.
Insomma, il nuovo istituto si denota per l’apprezzabile qualità di consentire di dar voce al Terzo settore, ossia al mondo dell’associazionismo, allo scopo di far entrare a pieno titolo la società civile nel processo decisionale e di controllo del bene confiscato alle mafie, con l’obiettivo di costruire all’interno del tessuto sociale, una pregevole rete di beni comuni: beni che non solo appartengono alla comunità territoriale, ma che vengono utilizzati per finalità sociali.
A tal fine, ruolo centrale assume l'Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC) che ha il compito di provvedere all'amministrazione e alla destinazione dei beni sin dalla fase del sequestro, coadiuvando l'amministratore giudiziario sotto la direzione dell'Autorità Giudiziaria, fino alla confisca di primo grado, dopo la quale assume la gestione diretta degli stessi beni, nonché quello di porre in essere tutte le azioni necessarie al superamento delle criticità che spesso ostacolano o rallentano la restituzione.
I buoni propositi visti fino ad ora, tuttavia, non fanno il conto con le innumerevoli insidie dell’intero iter procedimentale che rischia di inceppare il tentativo di riuso sociale dei beni confiscati alle mafie. I numeri d’altronde parlano chiaro e decisamente in senso negativo.
La prima insidia è rappresentata dalle lungaggini dei procedimenti penali. Difatti, dal momento che viene disposto il sequestro fino a quando si procede alla confisca definitiva – che rappresenta il momento in cui il bene viene destinato per finalità sociali – trascorrono spesso troppi anni, poiché la durata irragionevole dei processi colpisce anche questa tematica.
Tra gli altri ostacoli che impediscono il raggiungimento dello scopo della normativa, inoltre, si menzionano il difficile accesso al credito da parte della società civile che ha in gestione i beni comuni, o l’esistenza spesso di ipoteche sui beni confiscati che ne impediscono l’effettivo riutilizzo o l’abusività o inagibilità degli stessi, senza menzionare poi le occupazioni abusive da parte dei familiari dei malavitosi.
Per le aziende, per giunta, deve aggiungersi il blocco dei finanziamenti da parte degli istituti bancari che interviene già all’atto del sequestro del cespite, precludendo all’azienda ogni attività, con conseguente immediato calo delle commesse: insomma, l’impresa invece di essere salvaguardata nella sua produttività, al contrario, viene avviata verso l’uscita dal mercato, con conseguente impossibilità di riutilizzo. A ciò si aggiunga che troppo spesso le imprese vengono affidati a professionisti carenti di capacità manageriali o, ancora peggio, in celato conflitto di interessi. Il processo di legalizzazione delle aziende inoltre implica anche la regolarizzazione dei rapporti di lavoro che prima erano in nero, con inevitabile aumento dei costi di gestione, senza tuttavia che sia predisposto alcun meccanismo di finanziamento indiretto o di considerevole sgravio fiscale che, conseguentemente, incentivi il recupero dell’attività invece di affossarla.
In conclusione, ancorché la nuova “categoria” di beni comuni stia conducendo ad una battaglia di civiltà proattiva e compartecipativa di lotta alla criminalità, non possono essere adombrati i numerosi interrogativi e le numerose problematiche sottese alla nuova disciplina. In particolare, non si può far a meno di sottolineare come, invero, il processo di democratizzazione designato dal Codice Antimafia non possa che apparire incompiuto, anche perché la normativa in commento, come abbiamo visto, si va ad inserire all’interno di un particolare intreccio di diverse, ancorché convergenti, realtà prismatiche non considerate unitariamente da parte del Legislatore.
Se è vero che la lotta al fenomeno mafioso non può che passare per il tramite dei cittadini e, quindi, ad opera di una risposta “dal basso del territorio sul territorio”, la lotta alla criminalità non potrà che fallire se la comunità di cittadini viene lasciata da sola, ossia senza quegli effettivi e concreti strumenti che un meccanismo di ripresa virtuoso deve garantire.
La critica più loquace, pertanto, che pare opportuno evidenziare, è l’assenza da parte del Legislatore di una visione d’insieme del variegato e molteplice fenomeno della lotta alla criminalità. O, forse, più che una reale incapacità di cogliere gli aspetti più problematici, si imputa al Legislatore il mancato coraggio di prendere una forte e decisiva linea di contrasto capace di coinvolgere in maniera pervasiva la principale forza di reazione del fenomeno malavitoso: la comunità dei cittadini.
